venerdì 18 marzo 2011

Anniversario dell'Unità d'Italia: verso la seconda fase dell'identità nazionale

Una riflessione sulla festa dell'Unità: e voi che pensate al riguardo?

Se si domanda ad un cittadino straniero, da qualsiasi parte del globo egli provenga, che cosa gli venga in mente di primo acchito pensando all’Italia, sicuramente la risposta rimanderà alla secolare cultura del nostro paese, alle opere d’arte, al Rinascimento. La ricchezza culturale dell’Italia infatti domina ancora nell’immaginario collettivo e supera gli stereotipi della pizza e della mafia, sintetizzando meglio di altri aspetti la peculiarità della nostra patria. Dante, Michelangelo, Verdi e tutto ciò che questi grandi nomi implicano, testimoniano come la Penisola, molto prima di diventare formalmente un unico Regno sotto la monarchia sabauda, sia stata unificata dall’arte e dalla bellezza: origini nobilissime, incredibili a pensarci bene, ma con un concreto fondamento storico. Origini ormai dimenticate dagli italiani e che, per ritornare alla memoria, devono essere rispolverate da un attore comico durante il festival di Sanremo.
Mi sembra di dover partire da questa constatazione per riflettere su che cosa significhi oggi ricordare (e festeggiare) i 150 anni dell’unità d’Italia.
Una ricorrenza caduta in un momento particolarmente buio per la Repubblica, almeno dal punto di vista politico. Si dirà che abbiamo affrontato momenti più difficili, penso per esempio alla ricostruzione post bellica o agli anni di piombo, ma allora le sfide erano drammaticamente serie e il Paese le aveva affrontate con determinazione e unità. Oggi che la crisi economica segna un incontrovertibile declino sociale e economico non abbiamo una classe politica degna di guidare il paese. Dileggiati all’estero, chiusi in un provincialismo asfissiante (causato in gran parte dal monopolio televisivo berlusconiano), ormai privi di “desiderio”, come sottolineato dal Censis, siamo prigionieri di una situazione da cui non vediamo via di uscita. E neppure un rinnovato senso di unità sembra poter soccorrerci. Anzi. Questa condizione di malessere (o meglio, alla francese, di malheur, un termine che implica un disagio anche esistenziale) alimenta le spinte disgregatrici. Peraltro esse sono cavalcate da forze politiche che dietro la facciata del federalismo nascondono una propaganda della paura e del localismo, completamente fuori tempo rispetto al contesto storico odierno.

I 150 anni dell’unità d’Italia giungono in un momento in cui proprio il sentimento unitario è segnato da pesanti contraddizioni e sembra non essere più percepito come elemento fondamentale di riscatto e di crescita. In molti settori della società l’unità è vista come una zavorra: si dice che occorrono stipendi differenziati tra nord e sud, che servono regimi fiscali diversi perché ormai l’Italia è nei fatti divisa in due. Gli incredibili balletti del governo in merito alla festa, l'inquietante e grottesco comportamento di esponenti leghisti che rinnegano ogni simbolo italiano, persino la disinvoltura con cui il governatore sudtirolese Durnwalder non parteciperà all'incontro ufficiale con Napolitano sono segnali da non sottovalutare. Pure la Confindustria sperava di lavorare il 17 marzo. Questi discorsi, ancora minoritari ma sdoganati ormai molti anni fa, stanno pericolosamente prendendo piede in un popolo senza bussola.
Al di là di qualsiasi propaganda tuttavia, il presunto spirito regionalista, l’attaccamento a inesistenti “piccole patrie”, l’esaltazione dei costumi locali sono fenomeni passeggeri e avulsi dai veri problemi sul tappeto. Dal punto di vista sostanziale l’Italia non è mai stata così unita. Come faceva notare Tullio De Mauro, oggi quasi il 90% degli italiani parla la stessa lingua: nel 1861 la percentuale era capovolta e solo gruppi ristretti per censo e per cultura parlavano italiano. E si potrebbero fare molti altri esempi. Forse proprio perché il processo unitario è ormai dato per scontato e per irreversibile, ci si sente autorizzati a ragionare sui nuovi poteri da affidare alle comunità sul territorio.
La contraddizione odierna si concretizza più che nella società, nella classe dirigente. Inetta, volgare, tronfia. Certamente gli italiani hanno dimostrato più volte di vivere e di “salvarsi” senza o contro la guida politica del momento (si pensi non solo al biennio 1943-45 ma anche ai corrotti governi liberali di inizio 900), e anche in questo frangente troveremo le risorse per cavarcela. Mentre i partiti sono vuoti simulacri rispetto a quelli di alcuni decenni fa, possediamo una realtà associativa diffusa e viva, un volontariato presente nel mondo cattolico e laico, un tessuto produttivo ancora efficiente. Abbiamo però bisogno di un punto di riferimento istituzionale. In questi mesi il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è diventato un simbolo di valori e di comportamenti politici che ci sembrano perduti. Solamente il Capo dello Stato ha la dignità e la credibilità per rappresentare i 150 anni di storia unitaria, e grazie a lui questa ricorrenza trova un senso vivo anche per le istituzioni.
Tuttavia è necessario ripensare alla nostra identità. Non è facile affrontare questo tema ma credo che esso rimandi immediatamente al nuovo contesto storico globale: non possiamo più parlare di identità se non affrontiamo il tema dell'immigrazione. La presenza tra di noi di stranieri e di nuovi italiani segna quest'epoca, forse in misura ancora maggiore rispetto a quanto avevano cambiato il paese le ondate di emigrazione (che pure sono state veri e propri spostamenti di popolo: in 140 anni partirono in totale circa 28 milioni di italiani, tornarono i 10 milioni e oggi gli residenti all'estero sono 3 milioni).
Il futuro passa attraverso questa integrazione che segna la seconda fase dell’identità italiana. Un momento storico in cui sognare un futuro di convivenza reciproca proprio in nome della bellezza e della cultura. Possono essere ragionamenti utopici, ma la tolleranza non basta più. Il filosofo sloveno Slavoj Zizek scriveva qualche settimana fasul quotidiano inglese The Guardian (ormai l'unità d'Italia deve farci guardare anche oltre i nostri confini) sulla difficoltà dell'integrazione degli stranieri: “L'unico modo di venire fuori da questa impasse è impegnarsi e lottare per un progetto positivo universale condiviso da tutti coloro che vi partecipano... La missione è quella di andare oltre la mera tolleranza... Non limitarsi a rispettare gli altri, ma offrire loro una battaglia comune, come comuni sono oggi i nostri problemi”.
Trovare un progetto positivo e condiviso, aperto anche ai nuovi cittadini, per la seconda fase dell'identità italiana è il modo migliore per festeggiare i 150 anni. Un progetto che deve vedere l'Italia proiettata sullo scenario europeo e mediterraneo, capace di vivere contemporaneamente nella dimensione locale e globale, con la consapevolezza di poter trovare il suo posto e il suo ruolo nel mondo che cambia. Un progetto per cui lavorare e per cui dare battaglia.

3 commenti:

  1. Pubblico un pensiero che mi era venuto ieri e che ho condiviso anche su fb:
    Oggi non festeggiamo la nostra superiorità nazionale, non festeggiamo un orgoglio sciovinista, non festeggiamo il convincimento che essere italiano è meglio che essere qualcos'altro... Festeggiamo la creazione di una comunità libera e indipendente, pari alle altre, autodeterminantesi, festeggiamo la libertà di poter scegliere dove andare senza condizionamenti imperialistici... Festeggiamo il sogno ancora da realizzarsi di un uomo che viva in una declinazione di comunità (dalla città, allo stato, al mondo), privo di ogni germe di superiorità e di ogni steccato escludente, consapevole che l'orizzonte ultimo delle sue fatiche è il servizio dell'uomo universale

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  2. Vi allego una nota scritta da un mio amico su fb, una gran bella provocazione!!

    Volere un Paese, non una Nazione
    pubblicata da Sergio Benedusi il giorno giovedì 17 marzo 2011 alle ore 13.03

    A differenza dei miei concittadini leghisti, se oggi o qualunque altro giorno dovesse capitarmi di sentire l'inno di Mameli, lo canto, tenuto conto anche del fatto che ne conosco le parole e non solo la parte che fa poropo poropo, rispetto ora ad un nutrito gruppo di miei concittadini -un gruppo transpartitico e transregionale, a onor del vero.

    Non mi sottraggo però a quella che sento come una verità e affermo senza paura che la festa di oggi è una bugia, e i suoi aspetti al limite dell'assurdo sono, credo, sotto gli occhi di tutti.

    Assurda perchè si fonda su un'evento storico che di eroico ha poco: senza infilarmi in analisi sul risorgimento che già popolano i giornali da mesi, tutto si può dire tranne che l'unità d'Italia abbia veramente lo spessore delle grandi unificazioni nazionali europee, o delle liberazioni post-colonialiste del terzo mondo. L'unificazione d'Italia fu un incidente, un gioco di accordi e guerricciole, pensata da pochi e compiuta da pochissimi. La Nazione Italia, lo dico col timore di agitare i nazionalismi spicci, non esiste, e non gli è mai passato per la testa di esistere. Era un allegro sogno romantico e tutto ottocentesco di giovani che esattamente come quelli di oggi si sentivano inferiori ai loro coetanei europei, ispirati da quel furbone di Mazzini e plagiati da quella bestiaccia di Cavour.



    La Nazione non c'è e ci ostiniamo a cercarla nei suoi feticci, quando basterebbe volere un Paese: questo Paese c'è, esiste nella sua democrazia, nella sua costituzione e nel suo governarsi liberamente. La sua esistenza è un fatto, con buona pace dei leghisti e con spero un pò di imbarazzo di tutti gli altri, perchè in fondo potrebbe essere decisamente migliore. Liberarsi un pò dell'ossessione per la Nazionale di Calcio, nell'inno o nelle celebrazioni di Stato che in Italia sembrano sempre rituali di una religione nemmeno troppo laica ma decisamente idolatrante, sarebbe desiderabile. Come ci siamo trovati qui, con la carta d'itentità intestata uguale, dovrebbe interessare molto meno sia negli elogi come nelle polemiche rispetto alla volontà di fare un Paese meno ricco di simboli ma pieno di motivi di orgoglio.

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  3. Mi è piaciuta molto la frase.."l'unico modo per venire fuori da questa impasse è impegnarsi e lottare per un progetto condiviso da tutti quelli che vi partecipano"
    Credo che il male del nostro secolo sia la mancanza di un grande sogno , ci stiamo chiudendo non solo agli altri , ma anche le porte e le finestre per vedere oltre il nostro grigio e banale individualismo.
    Abbiamo bisogno veramente di una boccata di aria piena di grandi desideri che solo chi viene da fuori,da altre realtà, chi ha sofferto di piu' di noi ci puo' dare .

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